Dopo la prima lettera pubblicata, ecco in linea la seconda dal titolo “Vorrei giocare”. Anche in questo caso vi invito a leggere quanto scritto, perché in questa lettera si evidenziano, ulteriormente, alcuni aspetti che si ricollegano all’importanza che il nostro gruppo sportivo pone sui valori dell’educazione, del rispetto e della possibilità di far praticare sport anche ai bimbi e ragazzi meno dotati tecnicamente. riflettiamo pertanto su ciò che c’è scritto.
VORREI GIOCARE
Caro allenatore, ti scrivo perché da un po’ di tempo mi sto chiedendo le ragioni della mia presenza in squadra, e prima di decidere cosa fare per il futuro ho bisogno di capire alcune cose.
Tu sai benissimo che non sono nato per il calcio: rispetto ad alcuni miei compagni sono un po’ imbranato, spesso sbaglio i passaggi, o spedisco il pallone in posti lontanissimi da quelli giusti e quasi sempre finisco per farmi saltare dall’avversario che così riesce a segnare qualche gol di troppo. Eppure ti garantisco che il calcio mi piace moltissimo. Un po’ perché a casa il papà e la mamma ne discutono; un po’ perché è così importante che ne parlano le tv e i giornali, un po’ perché in classe i miei amici – soprattutto quelli bravi – sanno tutto di Vieri, Lippi e Del Piero.
A me piace molto stare con i miei amici e far parte del gruppo. Per questo desidererei anche giocare bene per essere uno di quelli rispettati in squadra, uno di quelli che tutti salutano quando sono ancora lontani e che quando sono vicini vengono accolti con sorrisi e amicizia.
Però, per come si stanno mettendo le cose, anche quest’anno sono un po’ mortificato e penso che abbandonerò la squadra. Anche mio padre, che si dà un gran daffare tra casa e lavoro, per portarmi agli allenamenti e alle partite e un po’ mortificato. Non sa che soluzione trovare. Lui aveva sentito i dirigenti della società, l’allenatore, tutti insomma, parlare di “valore dello sport”, di “offerta formativa dello sport” della necessità di coinvolgere tutti, anche i meno bravi. Con me finge di non accorgersi che quando è il momento di andare alla partita, io divento triste. Lui scherza e io invece metto il muso.
Sbaglio, perché il mio papà non lo merita, ma io non riesco a fare diversamente perché la tristezza mi prende dentro. Non capisco poi perché, come già l’anno scorso, come due anni fa, come tre anni fa quelli che finiscono per fare quasi tutto il campionato in panchina sono sempre gli stessi. E sembra che le cose debbano andare avanti così perché se giochiamo anche noi un po’ imbranati la classifica peggiora e la nostra squadra scende verso il fondo.
È questo che nessuno vuole, né fra di noi, né in società, né in paese.
Però se tutti i dirigenti di tutte le squadre del campionato fossero d’accordo di far giocare tutti, ma proprio tutti, senza stare a guardare quelli che sono bravi ( magari questi potrebbero giocare un po’ più degli altri) e quelli imbranati, allora le classifiche non cambierebbero.
Invece se uno comincia, per vincere il campionato, a voler scegliere solo i migliori, quelli che fanno cento palleggi senza lasciar cadere il pallone per terra, quelli che segnano anche se tirano da trenta metri, quelli che corrono tutta la partita, allora gli allenatori piano piano si adeguano.
Così però si rovina tutto. Io vedo le facce di quelli che come me sono in panchina tutta la partita e vedo anche quelli che sono sulla panchina della squadra avversaria. Mi stanno antipatici perché sono nostri avversari, ma mi dispiace anche per loro e capisco quanto soffrono.
Ma lo sai che recentemente io ho fatto una partita sempre in panchina anche se era un amichevole? E pensare che ci avevo sperato tutta la settimana di poter giocare almeno quella volta, e ogni mattina contavo i giorni che mancavano all’incontro. Quando ho visto che non mi mettevi in campo, mi sono sentito morire.
Certo, nelle mie condizioni, quando finalmente mi fai entrare in campo – e magari mancano tre minuti alla fine – io non ci sto più con la testa.
L’emozione mi blocca, non sono più sicuro di quello che faccio e gioco malissimo, molto peggio di quando gioco liberamente con i miei amici.
Perché ti preoccupi più della classifica che della nostra sofferenza? È vero che lo sport è in competizione, ma perché allora quando il curato ha detto che alla nostra età è più importante giocare e divertirsi perché intanto ci formiamo come persone in amicizia, tu non gli hai detto che si sbagliava?
Il mio papà mi iscriverà a un corso di musica ed io non verrò più al calcio. Penso proprio che per un po’ di tempo non mi farò più vedere perché altrimenti dovrò sentir parlare i miei amici delle loro partite, delle loro vittorie, degli errori dell’arbitro. Io, invece, penserò all’errore che ho fatto a credere a quello che mi dicevi.
Ciao e senza rancore.
Lettera pubblicata dal quotidiano “L’eco di Bergamo” ottobre 1999
Nella foto in alto la squadra dei Micro della San Paolo anno 2008-2009.
Inserito il 14-01-2009 19:59 / Aggiornato il 00-00-0000 00:00